30 agosto 2006

Licenziamenti e pubblici dipendenti

La proposta di Pietro Ichino sul Corriere della Sera di individuare e licenziare i nullafacenti all’interno delle amministrazioni pubbliche invece di procedere con tagli indiscriminati ha prodotto reazioni anche più interessanti della proposta stessa. La proposta è sicuramente provocatoria e ancor più certamente inapplicabile nella palude normativa giuslavoristica e giuspubblicistica italiana. Tuttavia ha almeno tre meriti importanti:

  • Innanzi tutto, obbliga il mondo politico a prendere una posizione che ha il pregio di essere comunque imbarazzante. O di qua o di là. Vogliamo difendere il privilegio del settore pubblico ed alienarci le simpatie di chi lo giudica ingiusto ed anacronistico, oppure vogliamo condannarlo ed alienarci le simpatie dei dipendenti pubblici? L’argomento, che tocca uno dei capisaldi della società italiana, è certamente più sentito delle discussioni sui PACS o sulle cellule staminali.

  • Pur avendo scarsissima applicabilità pratica, la proposta di Ichino si comporta come le macchie di inchiostro del dottor Rorschach – è una nuvola di fumo in cui ogni preoccupato difensore del privilegio proietta la sua visione del mondo, le sue ansie e le sue paure. Chi dice che “non esistono nullafacenti”, chi sostiene che “il licenziamento non è la strada migliore per rendere più efficiente la pubblica amministrazione”, chi parla di “criminalizzazione dei lavoratori”. Nessuno che abbia voglia di superare la presa di posizione di principio ed andare a vedere se e quanto il problema esiste. Vogliono forse farci credere che tra i quasi tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici non esista nemmeno un nullafacente? Nemmeno uno 0,1% di fannulloni? Suvvia, non ci crede nessuno. Perché non rispondono nel merito di come distinguere i buoni dai cattivi, i produttivi dagli improduttivi e si legano ad un approccio ideologico?

  • Infine, questa proposta ha il pregio di mettere il dito in un vezzo tipico dell’Italia che non ci piace: quello di difendere i carnefici e dimenticarsi delle vittime. In mancanza di un termine migliore, lo chiameremo nonnilupismo, in omaggio al lupo della favola di Cappuccetto Rosso che si traveste da nonnina per ingannare la bimba. Con la differenza che dalle nostre parti il lupo ha l’abitudine di scorazzare come mamma lo ha fatto e di travestirsi da nonnina indifesa solo quando viene accusato o condannato, di spremersi qualche lacrima di fronte alle telecamere e di approfittare a man bassa dell’amnistia o della grazia o del ricorso. Se indulgiamo nell’indulto per chi ha commesso crimini che hanno vittime ben precise, cosa mai potremo dire a chi non fa il suo dovere nella pubblica amministrazione, che si limita a prendere dalla grande pentola dello Stato? In fondo “terrà famiglia” pure lui, come tutti gli italiani.

Insomma: non aspettiamoci rivoluzioni pratiche dalla proposta di Ichino, perché il paese irreale è troppo occupato a parlarsi addosso ed a sommergersi di distinguo per affrontare temi che abbiano una qualche rilevanza pratica, magari cercando di vedere la direzione in cui gira il mondo. Al termine del dibattito, crediamo che la proposta sia comunque stimolante, quanto meno come virus culturale per una "nuova perestrojka italiana".